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La maestra Lodi

Serie

Incontri

Descrizione

Il ricordo della mia maestra delle elementari a Brescia.

Seppi che abitava in un bel portone in via Grazie, quasi di fronte alla mia scuola, una mattina in cui la mamma le volle chiedere se era contenta di me (le disse che mi vedeva sempre ”assorto”); e il scoprirle una casa m'era sembrata una fatata introduzione in quella specie di mistero che sigillava i maestri, irraggiungibili fuori della scuola dove apparivano in regolari e spesso paventate epifanie a noi bambini.

Vidi una volta anche il suo papà, un piccolo signore mantovano tutto in nero con la catenina al gilé, una barbettina bianca curatissima e un bastone anch'esso nero con il pomo d'argento, che mi incantò. Della sua mamma non seppi mai nulla.


Anche il suo nome era mantovano, ed era greco: Egle; e avendo letto qualcosa di Grecia negli anni, mi sembrò cosi poco adatto a lei, che non avrei potuto intravedere in qualche schiera di fanciulle canterine sotto gli ulivi o lungo i rivi dell'Attica.

Devo dire che in nessun posto, crescendo, trovai mai tra la gente tanti eroi e tanti re della Grecia e di Roma, tanti Ettori e Piladi e Paridi e Oresti e Alcidi e tante Seleni e Isidi ed Elene come dalle mie parti (a Rivarolo una inconsapevole casalinga portava il nome un po' impegnativo di Epaminonda) e tanti nomi di semidei e di amanti divine e di opliti e di ninfe .

Cosa che mi è sempre piaciuta, tra quelle che mi fanno felice del mio mezzo sangue mantovano, come l'aristocratico perdurare del bene non ancora perduto di una civiltà antica che il popolo considerava suo patrimonio e che la gente di tutti i giorni si trasmetteva, battezzando con quei nomi i suoi bambini.


Quella donnina minuta, sempre dritta sui tacchi e un po' rigida come un soldato, riservata e severa, che mi portò dalla prima alla terza elementare, continua ad abitarmi il cuore come uno degli incontri più benedetti della mia vita.

Le devo un omaggio anche in queste pagine, obbedendo almeno in parte all'obbligo di una testimonianza di gratitudine, di una dichiarazione di amore.


Poiché davvero l'ho amata.

Certo meno consapevolmente quando domava con ferma disciplina la nostra infanzia confusa e selvaggia, con una autorevolezza che ricordandola adesso vedo così sproporzionata alla sua figura.

Ma quanto più dopo, apprendendo a conoscere gli uomini, le approssimazioni i tradimenti e le inadempienze e le così rare fedeltà alla vocazioni ed ai compiti; imbattendomi nei maestri incapaci di scolaresche insipienti, nelle sentinelle dormienti sopra le mura e nei profeti bugiardi di città svendute.

Quanto più dopo, accorgendomi che con quella asciutta fermezza che ci intimidiva in quei tre anni lei mi aveva arato e sarchiato e potato con l'inesorabile diligenza di un vignaiolo fedele; e seminato delle sementi senza le quali non sarebbe potuto crescere l'uomo e grazie alle quali un uomo poteva crescere, migliore di me – e gliene chiedo tutti i giorni perdono.


Mi ricordo la sua voce, che aveva profonda e mi sembrava un po' disadatta alla sua apparente fragilità e che le tremava un po', come era tipico delle signore, quando intonava gli inni che dovevamo cantare in classe e che lei – lo seppi poi – detestava.


Non sembrava materna; e forse nemmeno lo era, ma lavorava alla nostra nascita con la spiccia alacrità delle levatrici di un tempo, forse nemmeno consapevole della socratica nobiltà di quella sua provvida e salutare maieutica.


Non era di chiesa; ma se guardo alla mia vita devo dire che spesso non lo sono stati e non lo sono miei amici più cari, il più delle volte quanto meno periferici ad appartenenze di cui alcuni che non mi piacciono vanno fieri.

Dei suoi bambini anche un altro, diligentissimo a scuola, al quale copiavo i compiti, diventò prete più degnamente di me, ma non ci fu verso di farglielo accettare. Accettò me, forse intuendo quel tanto di “periferico” che mi è rimasto nel sangue e che piace più ai marginali che ai primogeniti.

Non le piaceva il “mio” papa e mi diceva che per tutto quello che stava al di sopra dei tetti e per eventuali improbabili relazioni celesti avrei dovuto pensarci io. E io ci pensavo, sicuro che sopra i tetti dovevano amarla almeno come l'amavo io.


Negli ultimi anni se la incontravo per strada me la tiravo su in un abbraccio che la sollevava da terra, che io non avrei mai osato quando ero bambino e che lei non si sarebbe mai sognata di consentire, venendo meno al riserbo. Ma ne era felice; e telefonava alla mamma per dirle che aveva incontrato il suo don Renato che addirittura l'aveva abbracciata “sul Corso”.


La sua morte ebbe un dolore che mi è ancora difficile dopo tanti anni portare.

In un ospedale a due passi da casa mia, per quindici giorni aveva chiesto del suo don Renato e don Renato non andò da lei, e non poté farla morire fra le sue braccia. Dopo qualche settimana qualcuno si scusò per essersi dimenticato di dirmelo.

Si sarà sentita tradita dal bambino che aveva amato con quel suo rigido amore? Avrà vista confermata la sua diffidenza verso i preti? Avrà dovuto abbandonarsi sola, nel buio, a Qualcuno che le negava il solo segno invocato?

È un pensiero che mi fa male al cuore, una ferita che non guarirà mai.

Che soltanto medica un poco la speranza che un angelo meno impedito e più degno di me l'abbia presa fra le braccia come avrei fatto io e l'abbia portata là dove io non avrei potuto portarla, e dove la cerco e l'abbraccio, tutti giorni. Anche se adesso mi sgriderà un po', per avere parlato di lei, la mia Maestra.

Renato Laffranchi - info@renatolaffranchi.it